That is the Question!*

14 novembre 2011
2 nosense

Lo so, lo so. Sembro sparita, così... up, dentro lo specchio. No, ci sono, e quando ci sono (qui, nella dimensione parallela della piattaforma schifoogle) tento di adattarmi un template caruccetto che ho trovato. Ma si sa che ho perso la mano con css, html, javascript però mi è rimasto quell'occhio fetente per quel singolo, fetente, pixel fuori posto. Il che mi riduce a un "chiudi computer" velocemente quando arrivo al limite di tolleranza, per altro virtù assente nel mio pedigree astrologico.
Fuori di qui mi godo Scecspir e mi commuovo a Laerte che si getta sulla tomba della sorella, riduce Almeto al Peter Pan nevrotico qual'è, per quanto fascinoso, lo ammetto... sempre meglio di Otello, un Mastro Don Gesualdo della virilità: a metà tra il rude uomo militare e l'adolescente credulone e possessivo. Ovviamente non parlo di quella bufala di Scecspirinlov, film che brucerei sul rogo assieme a Buffy l'ammazzavampiri che almeno ha il pregio di non avere pretese.
Scusate, ogni tanto le signore si rifanno il trucco. E pure io.



* che non è un problema, bensì una questione. Come fa notare il Brucaliffo, tipo precisino sulle filosofie almeno quanto il becchino sull'uso corretto dei termini.

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Lettere alla Lepre Marzolina

1 novembre 2011
2 nosense

Ma tu lo sai che per gli inglesi la “lepre” è un simbolo di pazzia?
Davvero, pensano che le lepri siamo matte e che Marzo le renda ancora più pazze. Succede perché non si spiegano come mai LE lepri prendano a calci I lepri a Marzo. IL lepre si avvicina ALLA lepre e lei lo calcia, SDANG! Sul muso.
Questo però conferma quel che dicevano gli antichi: la pazzia è lo stato più vicino alla saggezza che esista.
Sorvolando sulle questioni femministe, secondo gli antichi il folle era posseduto, quindi preferito, dalle divinità. Non i compagni di scuola, bada bene, dalle divinità. Mica bruscolini. Ammetto che Platone già spiegava che il pazzo e il sacerdote si distinguono perché quest’ultimo riesce ad essere rispettato dalla divinità, ma la pazzia rimane il segno che distingue l’iniziando da chi proprio non ce la può fare a piacergli, alle divinità.
La lepre è anche simbolo di fertilità, come Marzo. Pazzia d’amore, follia da innamorati.
Quindi non potevo che chiamarti, per ora, Lepre Marzolina. È un augurio… eh? Va bene, va bene, è discutibile, un po’ folle, ma se io sono Alice di sicuro non puoi aspettarti la normalità. Sei d’accordo? Bene, anche se non lo eri mica cambiava niente, eh? E neppure ti salverai credendo in Mendel e nel suo “salta una generazione”. No, Lepre Marzolina, la follia è geneticamente dominante in questa famiglia. Tua nonna è matta, tuo nonno è folle, gli zii non si salvano, i tuoi bisnonni due visionari e una delle tue nonne giurava di aver visto gli elfi da bambina (bambina ho detto, niente droghe negli anni trenta, tutto naturale, spontaneo). Sullo zio Alex e il suo ramo di famiglia sorvolo, ne parliamo quando cresci, dopo che nasci. Però c’era la Zia con la telecinesi e almeno due persone giuravano che da bambini venivano messi in fila e tenuti buoni con oggetti volanti perfettamente identificati, e l’altra Zia che armeggiava con olio, sale e curava i famigliari... ma anche di questo riparliamo, forse, quando sarai grande, dopo che nasci.
Di fatto non si può evitare, neanche Freud ti può aiutare. Nooo, questa è pazzia filosofata, non si guarisce. Cos’è la pazzia filosofata? Cielo, ancora non ti ho insegnato nulla! È pazzia fatta filosofia di vita. Noterai che tua nonna non la mette neanche in discussione, ascolterai infinite chiacchiere con paroloni di tuo nonno per dimostrare che è normale, che è così, che riguarda il mondo. Io mi limiterò a dirti che questa famiglia fa della pazzia una filosofia di vita, che quindi non ci pensa proprio a guarire e che tu non potrai farlo perché da un lato ce l’hai genetica e dall’altro fa da fondamenta, un background strutturato di cultura su cui posi i piedi... ops, le zampe. E non vorrai destrutturalizzarti la psiche, eh? Fa male ed è come quando Pippo aggiusta i motori: ti resta sempre un pezzo fuori che non sai dove andava.
Oh, ma non preoccuparti… mamma renderà tutto divertente. Come? Ti fa paura? Non ci si riesce? Suvvia, non siamo ridicoli, la Buffezza salva il mondo e salverà anche te. Cos’è? Aaah, la Buffezza è una magia. Se sai farla invece di arrabbiarti sorridi, di offenderti ti sconquassi, di restarci male gli ridi in faccia. Davvero. Ma si, ma si che si può imparare, non preoccuparti… non mi farai mica la Lepre Angosciatina, eh? Sei Marzolina, vediamo di ricordarcene.
Dunque sappi che con tutta la famiglia festeggerai Halloween, lo dico perché ci siamo sotto e mi viene in mente. No, non siamo americanizzati, affatto. Halloween mica l’è americano, se vuoi fare una seduta spiritica puoi chiedere ai bisnonni, si è sempre festeggiata la vigilia di Ognissanti in Italia da prima che gli americani si togliessero i perizoma per mettersi i pantaloni. Quindi mamma ti ficcherà un lenzuolo in testa e ti manderà in giro per il palazzo a chiedere dolci… e se non te li danno o non rispondono (primo piano, uscendo dall’ascensore a destra, non rispondono mai, sappilo e se va a fuoco il palazzo e inutile cercare di avvertirli, tanto non rispondono) allora per un anno gli faremo gli scherzetti, tanto siamo all’ultimo piano e dal portone dovranno uscire prima o poi. Prima, di Halloween, tutta la tua famiglia si apposterà dietro gli angoli per farti BU!, scheletri di plastica saranno appesi dietro le porte e appena le apri ti si avvicineranno come a volerti prendere, ci saranno le fave fuori dalla finestra che non potrai mangiare e dovrai ascoltare le storie di chi non hai conosciuto. Poi, quando tutto sembrerà passato, faremo il pane in casa e lo porteremo assieme a nonna al cimitero, va bene uno lo faremo in più per te e ci metteremo gocce di cioccolato ma te lo mangerai lì, assieme ai bisnonni nel grande condominio dei morti dove, come cala il buio, la tua bisnonna (quella degli elfi) litiga con gli altri defunti i cui parenti lasciano marcire i fiori, è fatta così, che ci vuoi fare, Marzolina pure lei.
E, come mi ha insegnato lei, la mattina della Befana troverai le impronte di carbone e dovrai cercare il tuo sacco di regali per casa senza indizi (i raccolti della vita bisogna saperli vedere, Marzolina), e ci sarà sempre del carbone vero assieme a del carbone di zucchero, per imparare a distinguere il male dal bene senza farsi fregare dall’ingordigia, Marzolina.
Ma ti prometto che ogni Natale sarà una bomba, sono Alice nel nel Paese delle Meraviglie mica per niente. Aspettati un albero commestibile, biscotti, dolcetti, spezie, noci, castagne e chi più ne ha più ne metta! E ti dimenticherai dei regali perché Natale sarà un regalo, per stare assieme a tutti, per lavorare assieme, mangiare, parlare, costruire un anno che inizia. E non ti ho ancora parlato del Carnevale…
Fa ancora paura la follia? No, eh? Lo sapevo. Parti sempre da questa idea, mamma lo sa. Non importa che sia vero Lepre Marzolina, l’importante e sentirsi al caldo.
Una domanda? Beh, si certo, anche due… Perché, non ti piace? Allora significa che quando nascerai stamperò queste lettere e te le leggerò prima che ti addormenti, così non ci sarà nessuno “stupido” blog (le parolacce Marzolina, le parolacce sono quando fanno ridere). Sai che ho la memoria di un cardellino, non dimentico mai una promessa fatta ma i dettagli, stella del mattino, mi sfuggono con la velocità con cui tu mangi un biscotto quando hai fame. Tocca portar pazienza.
Bene, io ho iniziato a fare il mio. Tu vedi di fare il tuo, e tutto andrà per il verso più Buffoso, e la vita sarà un farti sorridere con me (cit.).
Quando nascerai.
Per ora... non sottilizziamo.





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I figli non sono mai esistiti

0 nosense
 Giuseppe D'Angelico impressionista, noto come Pino Daeni

Kahlil Gibran fu un’artista con quel talento tipico dei poeti geniali di riassumere in un termine il macrocosmo umano, leggendo alcuni suoi pezzi non posso fare a meno di ricordare che presso gli antichi i poeti erano sacri portatori delle parole divine, e in effetti in un termine sono capaci, alcuni, di concentrare il tutto.
Questo poeta libanese a cavallo tra l’ottocento e i primi del novecento scrisse alcuni pensieri che potrebbero diventare dogmi religiosi ancora oggi. E parlando con qualcuno mi è tornata in mente proprio una di queste perle.
I vostri figli non sono i vostri figli.
Sono i figli e le figlie della vita stessa.
Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi,
e non vi appartengono benché viviate insieme.
Potete amarli, ma non costringerli ai vostri pensieri,
poiché essi hanno i loro pensieri.
Potete custodire i loro corpi, ma non le anime loro,
poiché abitano case future, che neppure in sogno potrete visitare.
Cercherete d’imitarli, ma non potrete farli simili a voi,
poiché la vita procede e non s’attarda su ieri.
Voi siete gli archi da cui i figli, le vostre frecce vive, sono scoccate lontano.
L’Arciere vede il bersaglio sul sentiero infinito, e con la forza vi tende,
affinché le sue frecce vadano rapide e lontane.
In gioia siate tesi nelle mani dell’Arciere,
poiché, come ama il volo della freccia, così l’immobilità dell’arco.

Credo fermamente in tutti i concetti che espresse in queste poche frasi: il futuro che non s’attarda, il passato costretto ad imitarlo, l’assoluta verità che un figlio è solo un individuo e non il prolungamento di un altro individuo, che appartiene a se stesso e alla sua vita e non a quella che lo ha generato, e la nobiltà di chi rimane a guardarlo esistere senza volerne rubare l'esistenza.
Eppure secondo molti figli devono restare con i genitori, devono amarli, devono far regnare la concordia in famiglia, devono comprendere il genitore e devono tollerare. La cultura italiana, il valore della famiglia, il metro di giudizio degli affetti famigliari. Il futuro costretto a rivolgere lo sguardo al passato che inevitabilmente inciampa. Essendo la sua stessa essenza costretta in avanti, a se stesso, al futuro stesso.
Gibran, da grande conoscitore dell’animo umano, cresciuto tra Islam, Cristianesimo e ideologie americane, è quasi iniziatico in questi pochi versi: dice una grande ovvietà compresa però solo da pochissimi.
Figlio è solo una parola, sopra la quale culture intere costruiscono una filosofia di vita, di pensiero e quindi di emozioni. Passando poi l’esistenza nella frustrazione affettiva perché la natura, innegabile, di questa parola è l’allontanarsi. Per lo meno se il genitore è un buon genitore, cosa di cui andare fieri come suggerisce la fine della poesia.
Un sacrificio quello del figlio di abbandonare la sicumera della casa d’origine. Un sacrificio quello del genitore di restare immobile ad osservare senza intervenire la freccia che parte, veloce, lontana, verso la vita. Una vita che non si sa come andrà, non si può sapere, non si deve provare a controllare o indirizzare per amore. Perché nel momento in cui la freccia abbandona l’arco non è più governabile. Una questione fisica, naturale, biologica ed ineluttabile da qualsiasi angolazione la si voglia osservare.
Nell’altra cultura, quella che sfida ogni legge fisica, naturale, biologica inevitabilmente restando delusa e ferita “amore figliale” significa “responsabilità d’accudimento” rivoltando i ruoli, diventando figli dei figli, costringendo a responsabilità che un figlio non può prendersi, a sentimenti che un figlio non può provare, a comportamenti che un figlio non può avere.
Gli antropologi e gli psicologi hanno a lungo analizzato il potere di dipendenza che i bambini sono in grado di creare. Al di là del trovarli piacevoli o molesti un adulto sano di mente non riesce ad aggredirli. Perché? Sembra che accada per la loro struttura fisica, le orecchie oblique, gli occhi smisuratamente grandi, la testa enorme rispetto al tronco, gli arti grassi, la pancia prominente, la bocca carnosa, i nasi piccoli istigano istintivamente a più miti comportamenti. Le donne conservano alcuni di quei tratti, in gravidanza ne accentuano altri, costringendo biologicamente il maschio umano ad una minore aggressività.
Ma un genitore non ha alcuno di quei tratti. Un anziano non possiede ciò che istintivamente porta all’accudimento e alla pazienza. Intellettualmente rispettiamo la sua conoscenza, la sua eventuale saggezza, e nel farlo lo si interpreta come punto di riferimento, come “responsabile della conoscenza”, ancora come colui che ha delle responsabilità e non che le delega. Questo processo mentale, non istintivo (la rupe spartana, s'accabadora la donna della morte sarda sono solo alcuni esempi di culture che vedono la vecchiaia come limite a cui con pietà porre fine), offre agli anziani dei vantaggi ma in cambio di una utilità, che non va confusa quindi con un dovere essendo uno scambio, e che non è accudimento ma rispetto.
Un figlio non deve nulla ad un genitore. Per questo la sua presenza, il suo chiedere consiglio, il suo portarsi nel futuro il passato è un prezioso dono da rispettare e meritare. Come è da rispettare e meritare il genitore che fiducioso ed equilibrato consideri la sua prole individui prima che figli, lasciandoli quindi andare per la loro strada senza pretenderli di controllarla.

Tutti sappiamo che i figli sono individui, pochi sanno che l’ansia di perderli non è un problema loro. Che un figlio adulto non è più un figlio, e che la parola serve solo per indicare che lo è stato. Che proviene da te, che è merito tuo se è la persona che è.
“Credi che mio figlio smetterà di essere mio figlio da grande?”
Non lo credo, è così.
E’ come domandarmi se credo che invecchierò. Certo che invecchierò, il tempo non si ferma perché io lo voglio e questo mi insegna a non volerlo. Oppure morirò prima, il futuro non crescerà, non invecchierà e non sarà più.
Ma questa è un’altra triste, tragica, inaccettabile questione. Una riguarda la vita, l’altra la morte.
Vita e morte convivono, ma una freccia spezzata dal vento mentre l’arco rimane giovane è inaccettabile. Noi però parliamo di una freccia che portata dal vento raggiunge il suo imprevedibile ed incontrollabile traguardo.

Il Tempo apre le sue porte in questi giorni. Per ricordarci che esistono delle porte. Per mostrarci che queste porte non possono essere aperte dagli uomini. E per farci comprendere che nulla ha il potere di invertire il flusso naturale di chi o cosa passa attraverso tali porte.
Neanche il Tempo.
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Non chiamatelo amore

27 ottobre 2011
2 nosense
Erik Mohr

Io amo. In qualsiasi giorno amo. Qualsiasi volto amo. Qualsiasi nome amo. Io amo.
Io no.
La maggior parte dei giorni mi incavolo, magari anche solo con il traffico, gli altri rilasso i muscoli in attesa di incavolarmi. La maggior parte dei volti sono brutti, magari anche solo dentro ma brutti. La maggior parte dei nomi sono ereditati, magari anche dai nonni ma non individuali. No, io non amo.
Spesso.
Ma a guardarmi intorno sono tutti innamorati. Poi stanno sulle chat con altre/i però sono innamorati, magari di qualcun altro. Una terza fantomatica persona, di solito irraggiungibile.
Uno sguardo ed è amore, un invito ed è amore, del sesso? Amore.
Vuoi scoprire se è amore?
Alla fine di una giornata di lavoro, dopo un ora di traffico congestionato, magari piove pure, vedi se accompagnandoti a fare la spesa al supermercato riuscite a parlare invece che concentrarvi sulle cose da comprare. Allora si, che è amore!
Si, lo so, lo so, me lo dici sempre: io ragiono come un uomo su molte cose. Odio lo shopping, sono razionale, realista e non disdegno una serata tv con la birra.
Ma mi sorprendo di questa mia originalità, mi fa un po’ sentire un pesce fuor d’acqua, lo ammetto, un po’ strana, curiosa, non sbagliata, no, ma un po’ sola si.
Chissà com’è confondere la solitudine con l’amore, il sesso con l’amore, l’affetto ormai fraterno con l’amore, la fragilità con l’amore, le frasi fatte con l’amore, le rose con l’amore. Sarebbe tutto così facile…
Si, lo so, persone come te non le noterei neppure, ammetto che sarebbe una perdita, uno svantaggio.
Ci sono giorni in cui lo vorrei però questo amore d’appoggio, sai quei giorni in cui il tempo è uggioso, il traffico impertinente, il corpo stanco e tu hai un pensiero in testa, un’idea, o uno sfogo e non c’è nessuno a cui dirlo?
Potrei girarmi, guardarti mentre leggi un libro sotto la luce stanca di un Sole d’Autunno e dirtelo. Così, senza motivo, solo perché mi è passato per la testa. Potrei dirti: vado a farmi una doccia. E sentirmi rispondere: mhmh. Se lo dico ora non mi risponde nessuno, c’è Suzanne che canta nelle casse ma per il resto la casa tace.
Però dovrei rinunciare ad amare, e questo non mi va molto. Dovrei anche rinunciare a reinnamorarmi e neanche questo mi va molto. Dovrei rinunciare a trovare anomala questa intimità, a trovare unico poter dire: vado a farmi la doccia, e sentirmi rispondere.
Dovrei caricarti delle mie frustrazioni. Ti ho mai detto che sono piena di frustrazioni? Quasi tutto mi fa sentire frustrata, difetto mio, lo ammetto. Il traffico, il computer lento, i soldi che mancano, il lavoro che singhiozza, la mia famiglia… tante frustrazioni. E diventerebbe tutta colpa tua, solo colpa tua. Non hai le spalle così larghe.
No, non sei tu, no. Penso che nessuno le abbia. Siamo tutti carichi di frustrazioni.
Non vedo il motivo di farti questo sgarbo, un amore d’appoggio.
Se è amore è diverso, si condivide la vita. Se è d’appoggio la si carica sull’altro. Insicurezze in testa.
Vedi? Parlo una lingua tutta mia. Gli altri dicono amore e io non capisco, sembra anche che polemizzo ma no, davvero, non capisco di cosa parlino. Per me avrebbero dovuto dire solitudine, noia, insicurezza, sesso, affetto nella migliore delle ipotesi. Capiamoci, non contesto mica che due persone possano stare assieme per evitare la solitudine. Affatto, però non lo chiamino amore.
Non è precisoneria, no, è che poi io non capisco di cosa parlano, è una richiesta di sostegno: fate conto che io abbia dei limiti linguistici, ad alcuni danno la pensione d’invalidità per questo, io non chiedo tanto, solo un po’ di collaborazione. E non chiamatelo amore.

Una volta ero in macchina, davanti a me un’auto si ferma, istanti d’immobilità, un anziano signore esce dal posto del guidatore lentamente a causa dell’età, gira intorno alla macchina, apre la portiera con difficoltà ad un’anziana signora che sorride, si baciano in bocca, con più intensità di due adolescenti, poi lui gira intorno all’auto lentamente per l’età, risale con difficoltà, lei fa ciao con la mano, lui parte. Io e un’amica restiamo ferme a guardarlo andare via, lei entra nel portone con passo leggero. Passa il tempo, il traffico si ingorga. Poi partiamo. Nessuno suona il clacson. Nessuno.
Amore.
Se ne sente il profumo a distanza. Ferma il tempo anche di chi solo lo sta guardando. E’ silenzioso. Ha un sorriso sul viso e mai lacrime. E’ sereno. E’ completo. E’ vivo, a qualsiasi età, anche con l’artrosi. Egli è, e chi lo vive è.

No, davvero, non chiamatelo amore.
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Voglio veder fallito Google

25 ottobre 2011
3 nosense

Sarebbe stato carino postare un bello scritto poetico ma questa mattina la sveglia ha suonato e nell’arco di 30 minuti mi sono presa tre incazzature di seguito, quindi il blog si becca un post sfogo.
Incazzatura 1)
Qualcuno è così gentile da spiegarmi che senso ha mantenere un’amicizia su internet quando è nata nel quotidiano?
Antefatto: due colleghe si conosco in ambiente di lavoro, escono insieme e si frequentano, si telefonano e via dicendo. Poi una delle due sparisce e si rifà viva su internet proponendo uno scambio di email.
Ora, se fosse un modo per allontanarsi lo capirei. Infatti non risponderò all’email quasi sicuramente. Ma siccome in verità è un modo per mantenere un contatto io non lo capisco proprio. Capisco che esistano i conoscenti, quella gente non intima con cui prendi l’aperitivo, vai al cinema, condividi un interesse per le mostre nei musei e basta ma il conoscente-confessionale che ogni tanto ti scrive la letterina illustrandoti i problemi intestinali del cane (giuro che ha scritto queste cose) davvero mi sfugge. Perché qualcuno pensa che potrebbe interessare a qualcun altro sapere che il cane ha avuto i vermi intestinali? O che hai avuto problemi gengivali (c’era anche questo)? Capisco anche che in una telefonata escano fuori cose così, ma un’email così non ha alcun senso. Lo scambio epistolare presuppone un argomento e non del gossip sulla quantità di macchie nella tovaglia messa in lavatrice. O almeno una lontananza, ho scambi d’email con amici che stanno in Cina, o in regioni lontane dalla mia. Ma di fatto non passo due ore al giorno al pc e quindi faccio prima a chiamarli. E siccome hanno una vita anche loro fanno prima a chiamarmi, magari mentre si è in coda alla posta.
Incazzatura 2)
Solo in Italia, soltanto in Italia capita che per installarti una caldaia ti obblighino a prendere un giorno di ferie dal lavoro. I tecnici, dio li strafulmini tutti, lavorano solo la mattina. Anche io, risposta telefonica. Nessuna soluzione.
Ora, io non lavoro solo la mattina ma infiniti miei coetanei con contratti in nero e senza ferie si. Come si concilia il precariato con le società che non avvertono al momento dell’acquisto del loro limite con i famosi tecnici?
Caldaia e condizionatori freddo/caldo per un totale di tre giorni chiusa in casa dalle nove del mattino con i tecnici. Tre giorni che ad alcune persone che conosco costerebbero il contratto traballante sul posto di lavoro.
Nessuno si è accorto che la casalinga non esiste più e che non tutti si possono permettere la colf?
E nessuno si prende la briga, ovviamente, di avvertirti prima dell’acquisto. Risultato io che dico alla tipa: ho scelta? Mi sta davvero, a Ottobre, senza riscaldamento, domandando se ho scelta? Avrei scelta se voi mi pagate i giorni di lavoro che perdo ma in caso contrario speriamo solo che l’assegno corrisponda a dei soldi ancora presenti in banca. Sa, c’è la crisi.
Vaff.
Incazzatura 3)
Sono mesi che ci litigo, una questione informatica di principio. E’ ufficiale: odio Google.
Non dell’odio che si regala al frigorifero quando ti schiaccia un dito, o al phon quando si rompe a Dicembre e hai un metro e venti di capelli bagnati, no. No, è un odio viscerale, come quello che si prova per una persona, quell’odio che porta jella o che, come direbbe mia nonna, lancia il malocchio.
Google, sappi che a te e alla tua geolocalizzazione ho lanciato un malocchio!
Tò.
Non ci avete fatto caso? Google ora rintraccia la località da cui vi collegate. E siccome Google lancia le mode anche Facebook,  Twitter, società di annunci pubblicitari. Peccato che in Europa è illegale, già, noi europei abbia questo vizio della privacy, obbligatorio per legge, che garantisce e tutela i navigatori dal far sapere a terzi chi siamo.
Quindi in forma di principio Google ti voglio vedere fallire e voglio vedere nasce Eurogle, il primo motore di ricerca che rispetta i diritti degli europei. Dannati americani!
In forma poi pratica la rogna si moltiplica nelle seguenti rogne: impossibilità di ricercare prodotti e siti web esteri se non inserendo complicate parole chiavi.
Es: se voglio ordinare un prodotto ha Harrolds e non ricordo il nome dei grandi magazzini inglesi dovrò digitare cose tipo: london, department store (che è la traduzione del traduttore di Google di grande magazzino) e alla terza voce appare Harrolds.
Prima invece bastava “department store” e mi offriva tutti i grandi magazzino del mondo, cosa utile perché mi permetteva di scoprire altri concorrenti, magari irlandesi, di Harolds.
Ora invece, scrivendo solo department store mi appaiono pagine in italiano, la Rinascente, luoghi vicino alla città da cui navigo e altre robe italiane di cui, avendo scritto in inglese, non me ne frega un tubo.
Di fatto non scoprirò più i grandi magazzini nel mondo, non potrò più acquistare in Giappone se non limitando la ricerca a quel luogo. Perché?
Perché Google non permette di disattivare l’opzione di geolocalizzazione.
Ho disattivato l'opzione su Firefox, Explorer e Chrome ma il problema rimane.
In più.
In Italia se scrivi da città piccole non ti appare la tua città perché lo snodo della linea internet è collegato spesso ad una città diversa. Quindi vivendo in un paese e volendo trovare un negozio vicino casa devo, come prima, scrivere in nome del mio paese e poi il negozio da trovare. Perché il geolocalizzatore mi indirizza comunque allo snodo presentato dal mio IP.
Insomma: tutto rimane uguale tranne la rogna di non poter cercare cose su un intero continente.
Senza contare che il fare la stessa cosa da parte dei social network come facebook permette ad un malintenzionato di incrociare le informazioni su di te e trovarti in meno di un ora.
Non so se sono stata chiara, ma so che ho installato Tor e tutti i programmi annessi.
Piccola curiosità, siccome alle grandi società piace controllarci molti siti rifiutano una connessione tramite i proxy di Tor.
Voglio andare a vivere in campagna, almeno nessuno potrà mai risalire alla via dove abito visto che in Italia, paese a volte fortunatamente retrogrado, non ci sono snodi internet nei paesini.
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Guai e confini

12 ottobre 2011
2 nosense
 
Riassumere tutto a una manciata di “emozioni di base” non fa per me. Sarà che da piccola crescevo in mezzo ad artisti, presunti o tali, ma ho sempre amato le sfumature tono su tono dei colori… e anche delle emozioni. Ed è difficile cogliere un tono di irritazione sul tuo volto o nella tua voce, semmai rabbia o frustrazione ma quell’irritazione tipica di chi trattiene un’alzata di mano come se spalasse un insulto dietro la schiena no, è difficile.
Lo constato, non lo critico. Lo accetto constatandone la rarità.
La maggior parte delle persone è convinta che essere tolleranti in una coppia significa sopportare i difetti dell’altro. Magari fosse così facile! Significa venire in contro alle necessità dell’altro senza fargli pesare le proprie nevrosi fin dove è possibile!” brontoli masticando la sigaretta, simbolo di quell’alzata di mano repressa “Uno dei pregi che hai è l’essere diretta, schietta e ora che fai? Trattieni?” questa suona proprio come una frase alla Pennac, la direbbe Benjamin anzi no, qualcuno a Benjamin, una critica alla francese. Sorrido.
Ok, il problema è tuo.
Proprio tu, che conosci il significato di “furor” mi neghi il diritto e il piacere marziano di sconfiggere un mio limite?” sorrido ancora, l’irritazione ti ha reso filosofico, parli con le mie parole… nel caso mi sfuggisse il concetto per momentanea imbecillità mentale, cosa di cui sembri convinto io, al momento, sia affetta. Sei buffo, poi è carino questo panegirico che ti sta inventando tra i fumi mentali di una giornata lunga e faticosa.
Va bene, va bene, il problema è tuo e il mio è dichiarare apertamente le mie necessità, è onesto e corretto, ragionamento civile e insindacabile.
La lezione va avanzi, il dettaglio è snocciolato in modo che non ci possiamo confondere sui termini che si sa, la lingua non è mai abbastanza precisa “Io dico rosso e tu pensi al carminio, io invece ho in testa un rosso cardinale” eh, lo so, lo dico sempre io… mondo cane, la simbiosi. Mi spaventa la simbiosi, non è che io ami stare troppo con me stessa… non mutiamo i confini, io resto io e tu resti tu, eh? Se volevo la mia copia invitavo a cena lo specchio, sia chiaro.
Mi gioco la carta “background”, antropologicamente e psicologicamente da tenere sempre in considerazione il background, famigliare soprattutto. E ti ricordo che vengo da una famiglia dove il “no” non esiste, dove i confini sono un insulto all’intimità del rapporto e l’altruismo del martirio (tradotto: sopportare in silenzio e con il sorriso le nevrosi dell’altro) è una medaglia al valore della Familia, alla latina, senza la G.
Poi rido. Perché lo sguardo che mi hai mandato ha circa otto anni, è imbronciato e sta dicendo: ciccina, non mi freghi mica con una mossa di scacchi così elementare, per chi mi prendi?
Però è onesta, come mossa, voglio dire che ci credo. Un giorno ti odierò abbastanza per presentarti un paio di esponenti e gongolerò a guardarti annegare nell’insistenza e nella mancanza di ascolto moralmente giustificata dal “siamo una famiglia”. per ora restiamo sul “fidati delle mie parole”.
Comunque hai ragione, non è un problema mio, le tue nevrosi sono tue, sconfiggerle, allargare i tuoi limiti, spazzare via gli spigoli della tua personalità è una tua personalissima guerra e si, so quanta soddisfazione da riuscirci e si, so che affrontarli perché ce lo chiede qualcuno a cui teniamo è più facile che affrontarli perché lo dobbiamo a noi stessi.
E mio è il problema del background famigliare, dei “no” che fanno sentire in colpa come se pretendere rispetto per i propri bisogni fosse un rifiuto affettivo, mio limite, mia guerra individuale, mai personalissima vittoria e soddisfazione quando ce la faccio.
Bene, siamo d’accordo, intellettualmente allineati, va da sé che succederà ancora, va da sé che per personali convinzioni si cercherà di evitare che succeda ancora, va da sé che si tollereranno le scivolate ma si premierà l’impegno con un “bonus fiducia” accumulabile nel tempo e spendibile tutti assieme se serve.
Questo “noi” fa l’altalena tra un percorso zen, i bisticci dei bambini e i punti raccolta della Conad. Sarà la mia ironia innata ma lo trovo sempre stimolante, già.
È questo il guaio.

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Coming out generazionale

30 settembre 2011
3 nosense
(No, non ha a che vedere con quella noiosissima lista!)
Erano i miei primi anni delle elementari e me ne andavo a scuola, c’era l’insopportabile grembiulino rosa, brutto ma brutto che più brutto non si può. C’era la maestra fissata con Cristo che se sei cattivo ti tira i piedi nel letto mentre dormi, le infinite A sulla pagina, le maestre in cortile che si tiravano i peli delle gambe con le pinzette. Fine anni settanta, inizio anni ottanta.
Nel resto d’Italia, quello fuori dai cancelli della scuola e dalla porta di casa, arrivava la pillola anticoncezionale e di conseguenza i consultori.
I mariti erano contrari perché riduceva il loro controllo sulle mogli che potevano mettergli le corna (pensiero che in Egitto giustifica le mutilazioni genitali femminili), gli scapoli erano favorevoli. Le donne ignoranti, c’era chi rimaneva incinta perché pensava alla pillola come ad una compressa vaginale e i medici, più ignoranti di loro, non spiegavano un tubo, neanche di falloppio.
Io facevo collezione di gommine profumate e l’Italia cercava di capire cosa fosse la libertà sessuale di fare sesso senza procreare. Non che prima non succedesse, ma con un’angoscia al cui confronto l’ansia da prestazione moderna andrebbe solo presa a calci sui denti. C’erano poi gli uomini deboli di reni, che era un modo poco scientifico per dire che soffrendo di eiaculazione precoce non erano in grado di praticare il coito interrotto, risultato 20 figli nei paesi dove la pillola arrivava in ritardo, a stenti, a gomitate sui denti dell’ignoranza per lo più di volontari pazienti e di alcuni dei radicali ancora oggi in circolazione (miracolosamente non in pensione, ah, già, scusate, qui è la norma).
Quando io andavo al liceo, ascoltando Freddy che si vestiva da donna, c’era una professoressa che ci tediava spiegandoci la contraccezione. Non so bene come ma noi sapevamo già tutto al ginnasio e questa invadenza nelle nostre vite private ci sembrava inaccettabile, inammissibile e del tutto inutile. Ammetto che una compagna di classe sentendo parlare di sesso orale rispose che lei parlava spesso con sua madre di sesso, ma la reazione fu di massima ilarità con buona pace per il suo imbarazzo e la sua ignoranza, non più compresa e giustificata ma condannata.
La mia generazione era quella che Shirley Valantine (film) definisce “la generazione della clitoride” e per capire se un maschio diceva balle bastava porre qualche domanda mirata –ancora oggi, sic- e rifiutarlo come “povero idiota”.
Quella di mia madre era quella delle pillole ormonali che si inseriscono in vagina –brivido lungo la schiena- e che vanno prese di nascosto.
Io crescevo con i cantanti preferiti che morivano di hiv, all’epoca aids, e con i profilattici nella testa.
Lei con il coito interrotto e un patetico “Io speriamo che me la cavo”.
Io giocavo ai videogiochi, guardavo gli anime (all’epoca cartoni animati giapponesi), fumavo di nascosto, sapevo gli effetti che dava la cocaina, sognavo un poster di Nagel, il venerdì una certa discoteca, il sabato l’altra.
Lei sproloquiava di libertà senza sapere come usare la pillola, leggeva autori in Spagna proibiti scoprendo Marx (che io studiai a scuola, il modo più veloce per ammazzare un’ideologia è statalizzarla e farci le interrogazioni sopra), si infilava improbabili fiori nei capelli, sognava un viaggio in Europa dell’Est, il venerdì stava a casa o al massimo aveva una feste in casa con genitori presenti.

Escludendo la voglia di far notare come sia folle permettere a quella generazione là, quella della pillola vaginale invece che orale, di decidere dell’attuale società, internet compresa, di cui credo proprio abbia capito poco non avendola vissuta ma vista nascere, mi sorprendevo a pensare che non siamo mai stati meglio.
Nella mia vita, per altro non tanto lunga, ho sentito tante persone, e io stessa a volte ho detto, che sarebbe stato meglio nascere prima. Prima di uno, due, tre, dieci secoli. Chi predilige i romani, chi il medioevo, chi il risorgimento, chi l’ottocento e addirittura c’è chi sogna i primi del novecento dimenticandosi la Spagnola (che no, non era una pratica erotica). Immemori del passato lo rimpiangiamo.
Ci diciamo oppressi ma non sappiamo neanche di cosa parliamo, come le femministe al tempo delle mie elementari che pensavano bastasse prendere la pillola e avere un lavoro per essere indipendenti da una società castrante (per tutti, mica solo per le donne).
Ci piace la crinolina, diciamolo. Quell’odore di lavanda sulle lenzuola, i biscotti della nonna, l’idea che tutto fosse chiaro, semplice, determinato da una società non così caotica.
E invece la mia di nonna, che era meno ipocrita di altre nonne, raccontava ai nipoti delle amiche che nel dopo guerra si facevano “ricucire” la verginità per imbrogliare i futuri mariti, girava in macchina per Roma indicando dove un tempo si potevano trovare le mammane per abortire, affermava decisa che eravamo una generazione di sceme incapaci di manipolare un maschio come si deve (verissimo, per altro).
I nonni maschi raccontavano delle guerre, dei giorni passati a camminare tra avanzi umani, dei topi in camera da letto dove si tenevano i sacchi di farina durante la guerra… e i neonati figlioli, delle pulci, della fame, dei parenti falciati dalle febbri, dell’oro alla patria costato due vite vissute in un anno solo, del sangue degli altri che gli colava addosso, della morte ovunque come fosse una pratolina ai bordi di una strada di campagna.
Oggi giochiamo a fare i duri, diciamo di amare il sangue, il dark, la maleducazione, i cattivi, anzi diventiamo noi cattivi, giusto giusto perché un nostro nonno è andato a combattere perdendo ogni ingenuità e sputando sangue per tornare vivo, giusto, giusto per permetterci di dire fregnacce.
Ogni tanto mi dimentico che questa mia libertà di fare quello che voglio, quando voglio, di essere furba o scema, di considerare Teodoru Badiu un artista, di essere acculturata o ignorante, originale o banale non è arrivata gratuita come un regalo di Natale.
Ogni tanto mi dimentico che una volta all’anno, almeno per il giorno dei morti, si dovrebbe tornare seri e guardarsi dentro riconoscendo di essere dei fortunati e ingrati parassiti sociali.
Che questa crisi non è certo peggio della povertà del dopo guerra da cui i miei nonni (si quelli lì, che facevano l’agnello di Pasqua meglio di qualsiasi ristorante) si sono alzati, o della fame nelle campagne degli anni settanta dove crescevano genitori e parenti. Che non trovare lavoro oggi non significa morire di fame ma fare solo dei grandi sacrifici, perché alle spalle c’è ancora chi mantiene, sostiene, se non di persona con il lavoro di una vita lasciato in eredità. Che a quelli che verranno bisogna lasciare qualcosa, fosse solo l’onore di far parte di questo paese un tempo di eroici signorichiunque prendendone in mano le redini, rubandole fecero loro con i polli per nutrire i figli.
Che nessuna donna e nessun uomo della mia famiglia è mai stato bene quanto me.
E che chi verrà dopo di me starà ancora meglio. E che quando accadrà io vorrò sentirmi dire “grazie” per essere sopravvissuta alla corruzione che Tangentopoli ha solo fatto finta di estirpare imbrogliandoci tutti.

Da questa casa che costruì mio nonno venuto dal sud Italia, dove mia madre per prima in tutta la nostra stirpe ha affrontato un divorzio senza perdere l’onore… grazie, eh? Tranquilli, sto bene, c’è a crisi ma, davvero, mai stati meglio, giuro.

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Sgualcito

29 settembre 2011
2 nosense


Seduta sul mio letto coperto da garza guardo l'orizzonte. Il vento mi sfiora l'anima con profumi lontani ma famigliari in questa notte senza Luna.
C'è l'odore di un abito sgualcito nell'aria, attraversa la stanza come un fantasma, non si accomoda, va di fretta.
In molti dicono di conoscere il dolore. In pochi conoscono il dolore.
Lo so, il mondo intero soffre. Ma non abbastanza da cogliere, mentre il dolore cambia i tuoi valori, cambia le priorità e le rende animali, selvatiche, violente.
Un abito è sgualcito, in basso strappato, gettato su di un letto sfatto e abbandonato.
Il dolore ci rende impotenti. La maggior parte delle persone non sa cosa fare quando se lo trova davanti, dunque fugge. Che sia suo o di altri.
Non sono mai stata troppo brava a correre, oggi poi fumo troppo per scappare e faccio di questa necessità un atto di virtuoso coraggio: non fuggo. Né dal mio, né dal tuo.
Posalo qui, sul palmo aperto delle mie mani questo bruciante dolore. Sono mani che lavorano, intessono, creano, cuciono, abituate al fuoco e agli spilli che portano fortuna in amore, cucirò questo strappo, stirerò le pieghe che contraggono l'anima addolorata.
Sangue caldo, denso e liquido che cola. Brucia l'anima e la pelle che lo sfiora. Sfrigola sotto l'acqua fertile di Egeria, diviene nube di vapore che acceca, nebbia pestilenziale che si infila nei polmoni e li rende uguali a quelli dei conciatori africani.
Ne farò un pendaglio che porterai sul cuore, e il dolore diventerà una protezione. Rosso rubino scuro come la terra porterà la vita dove prima c'era morte.
E' una prova di coraggio questo tuo guardarlo in faccia, avvolgertici dentro ai primi freddi d'Autunno come fosse una coperta intessuta dei tuoi tendini, di ogni muscolo contratto, di ogni vena tesa. So quanto la forza manchi, quanto si sentano anche nel corpo i morsi all'anima. Lascia che scorra, poi apri le porte all'istinto e non alla ragione.
La ragione è stolta, davanti al dolore le cedono le gambe, è forte solo finchè ha una sua funzione.
L'istinto in mezzo all'Oceano ti tiene a galla, per giorni, settimane, mesi o anni.
Saranno giorni se lo ascolti.
Troverà in te quello che non pensi di possedere più da infinite generazioni di evoluzione civile, civilizzata, educata, imbrigliata, castrata. Dal sangue rinascerai ricoperto del tuo stesso sangue, partorito da te stesso, figlio di te stesso.
Lascia scorrere nelle vene quella forza arcaica, libera la sua violenza senza curarti di chi ti è accanto, non pensare, non pensare, non pensare, seguilo, affidati, abbandonati, concediti alla tua gente che vita dopo vita ti ha dato vita.
Ogni resistenza prolungherà l'agonia. Ogni fuga donerà il silenzio che sentono le pecore nelle orecchie mentre i grilli cantano. Ogni ragione creerà gomitoli di orpelli in cui imbrigliarti.
C'è solo una cosa che puoi fare davanti al Grande Drago: guardalo in faccia e combatti. Imbraccia l'istinto dell'animale che possiedi e divoralo. Poi domalo, con la calma forza dell'istinto possiedilo come lui sta possedendo te.
Allora tu sarai il Grande Drago.
Questo il primo passo.
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